“Ognuno di noi è trama e ordito del grande arazzo del tempo che vive e di cui assorbe inevitabilmente il clima e i colori”
Aspettare il secondo figlio mentre si assapora il gusto dell’incarico che hai appena ottenuto nella scuola pubblica, a trent’anni, è sicuramente una condizione che ti regala gratificazione e scalda l’esistenza con il senso della progettualità. Così pensa Lucina nel 1985, dopo aver vinto ben quattro dei cinque concorsi per l’immissione in ruolo a cui ha partecipato, e scelto la cattedra nella scuola media di Ladispoli, dove peraltro insegna in aule ricavate nei box per le auto di un grande garage ed è sottoposta ai rigidi controlli di una acidissima preside. L’obiettivo dei centottanta giorni effettivi di servizio è fondamentale per ottenere la conferma in ruolo, e Lucina ci mette tutta se stessa, con il consueto impegno e con l’entusiasmo di chi si sente sulla strada giusta.
Dopo il primo trimestre, la gravidanza manifesta alcuni problemi che precipitano fino a un ricovero che la costringe a fermarsi dal lavoro, quando, per fortuna, Lucina ha già superato il periodo di prova.
L’11 maggio di quell’anno le dicono che è indispensabile anticipare il parto. Marta viene fatta nascere con intervento cesareo alla ventiquattresima settimana proprio per interrompere quella gravidanza ormai insostenibile, ed è un fagottino di seicento grammi su cui nessuno scommette una lira.
«Ne farà un’altra, signora», cerca maldestramente di rincuorarla l’anestesista, dando la bambina per spacciata. Ma Lucina, nonostante lo sconforto dovuto a quell’interruzione, è convinta del contrario, e non a torto, perché Marta poi sopravvive e per lei e per i genitori parte un altro pezzo di vita, con quattro mesi di incubatrice, tra alti e bassi, corse alla “banca del latte” da un ospedale all’altro: cose così, in parte oggi improponibili.
La bimba viene dimessa quando ha raggiunto i due chili e quattro etti di peso, esattamente lo stesso giorno in cui Lucina deve scegliere la cattedra per le superiori. La preside del nuovo istituto, conosciuta la sua situazione, per fortuna si dimostra comprensiva e collaborativa. Di comprensione Lucina ne avrà ancora molto bisogno nei tempi che seguiranno, dopo che alla piccola, in seguito agli esami cui sono sottoposti i prematuri, viene riscontrata una retinopatia di grado elevato.
«La bambina vede molto poco», dice il primario che rilascia la diagnosi, ma il suo è senza dubbio un modo gentile per preparare i genitori al peggio.
Un anno di viaggi in tutta Italia non basta a trovare appigli utili per sperare nella possibilità di un intervento migliorativo. Qualcuno consiglia un oculista pediatrico slavo che lavora in Olanda. Volano là, ma lo specialista chiude definitivamente ogni porta alla speranza: decide di non operare la bambina, e spiega che sicuramente perderà quel poco di luci e di ombre che ancora percepisce.
Se nei confronti della cecità non resta che mettersi l’animo in pace, non così può essere per gli aspetti che riguardano la crescita di Marta: come si deve educare un bambino cieco?
Il neuropsichiatra assicura che lo sviluppo sembra normale, malgrado la prematurità, e consiglia l’istituto Romagnoli, al Casale di San Pio V, dove però l’esperienza non darà i frutti sperati. L’eccesso di attenzione rivolta ai genitori da uno psicologo, a discapito di quella di cui avrebbe maggiormente richiesto la stessa Marta, distoglie dalla possibilità di osservare alcuni segni di chiusura autistica che si stavano manifestando.
Quando la bambina ha poco più di due anni, la vera svolta si materializza nell’incontro con l’istituto Eugenio Medea di Bosisio Parini, in Lombardia, centro per la cura di bambini non vedenti e con altre disabilità in cui l’efficienza e l’accoglienza si accordano con un’organizzazione impagabile. Tutto coordinato. Con tutta la famiglia riunita per una settimana in un ambiente ideale, pronta a ricevere utili “istruzioni per l’uso” da portarsi a casa.
Con il lavoro di una psicoterapeuta, l’atteggiamento relazionale gradatamente migliora, ma non quello rivolto al cibo, perché la piccola non mastica, e dovrà essere alimentata con liquidi e semi-liquidi sino ai nove anni. Marta non mangia e non dorme, e Lucina è sottoposta a una enorme fatica. Tanto più che si deve anche indagare clinicamente per scoprire se quella chiusura autistica, unita alle difficoltà della nascita prematura, può aver prodotto qualche forma di ritardo cognitivo. Che alla fine risulterà, malgrado il danno cerebrale non sia stato a suo tempo diagnosticato.
Nel 1985, risulta sia sopravvissuto nel Lazio solo il venti per mille dei prematuri di peso compreso tra mezzo chilo e un chilo. Marta appartiene alla generazione dei primi immaturi che ce l’hanno fatta, avanguardie del percorso che la scienza aveva intrapreso in quel campo, arrivando via via a ottenere risultati al limite dell’incredibile. A fronte dell’aumento della percentuale di successi, i problemi che si pongono in questi casi riguardano le conseguenze che la limitata permanenza nel ventre materno causa nei piccoli. Tra queste, con il mancato completamento di formazione della retina, rientrano ad esempio la cecità e il ritardo cognitivo.
Marta adulta è un personaggio intrigante, dotato di una propria indiscutibile e originale intelligenza. Empatica, dotata di un grosso potenziale e di grande affettività, ha la capacità di stupire, perché oltre agli impedimenti ha delle risorse. Dopo le scuole elementari, seguendo un percorso individualizzato ha potuto misurarsi con una bella e ben supportata esperienza alle medie. Le superiori, sempre in forma ridotta e personalizzata, le ha frequentate al “Rousseau”.
Ma a parte la scuola, con lo stimolo della famiglia e il suo innato desiderio discoperta, di cose ne ha fatte molte. Come sciare e cavalcare, ad esempio. Ma soprattutto nuotare in piscina, dove nel tempo ha conseguito diversi brevetti. L’acqua è diventata la sua passione, insieme a quella per la musica. A due anni esplorava a gattoni il pianoforte della nonna, appoggiando l’orecchio alla cassa, e con un dito suonava qualche nota. Oggi suona molto bene. La musica è stata ed è la sua forza, l’identità in cui si riconosce, tanto che quando parla di sé si definisce una musicista.
«Il Rousseau aveva rapporti con il S. Alessio. Era un ambiente protetto e specializzato, e nel 2001 abbiamo voluto verificare se poteva offrire qualcosa a Marta. Nei primi due anni una giovane neuropsichiatra, Silvia Maffei, è stata una eccezionale chiave di volta per permetterci di imparare a lavorare con Marta nell’adolescenza. Con i problemi di gestione che hanno poi gettato il S. Alessio nel caos, purtroppo se ne è andata via, e per Marta è stato un momento di stallo. Nonostante tutto, abbiamo capito che non dovevamo desistere, perché quello era l’unico istituto che si occupava dei ciechi. Il problema riguardava soprattutto i pluriminorati, per i quali al S. Alessio non erano preparati. C’erano anche situazioni molto gravi che Marta inizialmente non accettava, ma alla fine, resistendo, qui ha migliorato la deambulazione autonoma, la comunicazione, ha continuato a fare musica e si è inserita nel semi-residenziale. Parallelamente, già dalle medie, è diventata anche lei una scout e tra i diciassette e i ventidue anni ha svolto la migliore attività possibile, seguita con intelligenza e giusta misura da capi bravi e capaci. Marta ha sempre camminato, e partecipato a gite scolastiche: stare negli scout, insieme agli altri, le piaceva molto. Con loro è stata nelle Marche, nelle Cinque Terre, in Romania e ha fatto perfino il cammino di Santiago, anche se in versione ridotta. Con questo tipo di vita ha imparato a desiderare l’autonomia. Negli scout, con nostra estrema sorpresa, ha imparato perfino a mangiare tutto. La stessa Maffei mi ha spinto a insistere su queste esperienze di distacco dalla famiglia, quasi obbligandomi, dopo i diciotto anni, a mandarla al soggiorno estivo con la Asl, insieme a gente sconosciuta. Non è stato facile, ma capivo che era necessario, e recuperare spazi per me e per Mariano è stato molto confortante».
“Autonomia” diventa a questo punto la parola chiave di una presa di coscienza che consente a Lucina e Mariano di immaginare che Marta, con una serie di accorgimenti, sarebbe potuta uscire di casa. Diventati entrambi pensionati, creano l’Associazione “Vedere oltre”, con la finalità di promuovere la diffusione di una cultura serena verso l’handicap. Pensano anche di prendere in comodato una struttura, in cui organizzare laboratori e creare opportunità di autonomia; problema, questo, che si risolve quando muore la madre di Mariano e si libera il suo grande appartamento. Ristrutturato l’immobile, anche nel rispetto delle regole previste per la disabilità, con la sensibilità e la concreta partecipazione del S. Alessio nasce il progetto “Pergolato”, dedicato alla realizzazione di progetti per l’autonomia e l’inclusione sociale dei disabili sensoriali. Una casa in cui Marta e altri disabili visivi, seguiti da giovani operatori del Centro, dal giovedì alla domenica possono vivere occasioni di autonomia e di scoperta imparando a gestire la propria quotidianità: non per chiudersi tra le mura, ma per aprirsi al mondo in un continuo percorso di crescita. Divenuta punto fermo nel percorso socio-educativo del S. Alessio, all’interno di un progetto attivato con la Regione, quella casa sembra il felice risultato di un’azione congiunta che ha permesso di cogliere un potenziale enorme e di investire su di esso, in modo da dare a Marta e ai suoi compagni una dimensione di futuro vivibile e accogliente.
«Mi ha sempre affascinato il fatto che ognuno di noi è trama e ordito del grande arazzo del tempo che vive e di cui assorbe inevitabilmente il clima e i colori. La casa è l’ultima chicca ottenuta grazie alla nuova gestione del S. Alessio, a cui devo molto. Piva e Organtini sono stati una svolta per il nostro progetto, sostenendone il finanziamento e mettendo a disposizione giovani ed entusiasti operatori. Oggi la casa della nonna è la casa di Marta, quella in cui lei dice che andrà a vivere. Questo significa che ha fatto un percorso, che sta desiderando un futuro, ed è una cosa grandiosa. Marta ha fatto tante esperienze, ora ne sono convinta. Così come comincio a pensare che aver creduto nel suo recupero, prima di tutto per fede e poi per struttura mentale, è stato fondamentale. Bisogna sempre darsi da fare senza aspettare che qualcuno lo faccia per noi, e non smettere di voler apprendere. Marta, a me, ha dato un limite; mi ha insegnato a coniugare passione e doveri, e a trovare uno spazio anche per me stessa».